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martedì 14 maggio 2013

748 - GUATEMALA, 80 ANNI AL DITTATORE

«Ha ordinato lo sterminio di 1.771 indigeni maya». È la prima volta nel mondo che un ex capo di Stato viene condannato in patria per violazioni dei diritti umani
Un minuto di applausi dopo l’interminabile silenzio. Poi, un grido spontaneo, inarrestabile, dirompente: «Justicia, justicia» (giustizia, giustizia) e «Nunca más» (mai più). Per qualche istante, il “processo del secolo” in Guatemala si è trasformato in una festa popolare. Poi, nell’aula del Tribunale di massima sicurezza della capitale, è tornata la calma. E il giudice Jazmín Barrios ha potuto terminare di leggere la sentenza di condanna a 80 anni di carcere: 50 per genocidio e 30 per crimini contro l’umanità, nei confronti dell’ex dittatore José Efraím Rios Montt. Riconosciuto colpevole di aver ordinato lo sterminio sistematico di 1.771 indigeni di etnia ixil, la tortura e la scomparsa di altri 29mila maya. Nei suoi cinquecento giorni di potere assoluto, tra il marzo 1982 e l’agosto 1983, Rios Montt ha incitato l’esercito – afferma il verdetto – a far “piazza pulita” degli indios del Quiché in quanto «potenziali fiancheggiatori della guerriglia» e «nemici interni». Il massacro è andato avanti al ritmo di 800 omicidi al mese.
Era la strategia della “terra bruciata” in cui la distruzione della coltivazioni per provocare carestie, lo stupro di massa e gli infanticidi sono state «comuni armi di guerra», ha detto il giudice Barrios. Accuse smentite con decisione dall’ex generale 86enne in una vibrante dichiarazione appena due giorni fa. «Non sono un genocida», aveva affermato Rios Montt. Il tribunale, però, ha creduto ai 98 sopravvissuti ai massacri del periodo più sanguinoso della lunga guerra civile (1960-1996). Che hanno sfidato pregiudizi, minacce e pressioni per testimoniare in aula in questi quattro mesi convulsi.
Tanto è durato il giudizio, aperto il 28 gennaio scorso – esattamente un anno dopo l’incriminazione avvenuta al termine dell’immunità parlamentare dell’ex militare – e interrotto più volte.
L’ultima, il 19 aprile scorso – su richiesta della Corte costituzionale – dopo una serie di pressioni da parti di gruppi vicini al passato regime.
Che hanno scatenato una battaglia mediatica – con tanto di pamplet e voltantini diffamatori – contro gli attivisti per i diritti umani e la Chiesa cattolica, da sempre al fianco degli indigeni perseguitati, accusata di fomentare il popolo alla rivolta.
Il giudice Barrios – nota per la mano dura verso gli ex gerarchi, tra cui i militari accusati dell’assassinio del vescovo Juan Gerardi, autore della principale inchiesta sui crimini della guerra civile –, però, non ha ceduto. Sostenuta dalle proteste della società civile, il 30 aprile ha ordinato il proseguimento del dibattimento.
E nella tarda serata di venerdì (l’alba in Italia) ha pronunciato la sentenza-spartiacque.
È la prima volta in America Latina e nel mondo che un ex dittatore viene condannato per genocidio da una corte nazionale. Una pietra miliale nella giurisprudenza internazionale, hanno affermato dall’Onu. Assolto, invece, in quanto «esiste il legittimo dubbio sulla sua concreta partecipazione al massacro», l’ex capo dell’intelligence militare, José Rodríguez.
Nonostante il fondamentale valore simbolico del verdetto, però, Rios Montt potrebbe non trascorre i suoi ultimi anni in prigione. La difesa ha già annunciato che ricorrerà in appello.
E, nonostante il presidente ed ex generale Otto Pérez Molina abbia detto di voler rispettare la sentenza, gran parte dell’esercito è schierata con l’ex leader. La tentazione della violenza – che si acuita negli ultimi mesi come hanno sottolineato da poco i vescovi – è forte.
di Lucia Capuzzi, Avvenire, 12/05/2013