venerdì 11 giugno 2010
160 - LE TRAGEDIE CHE COLPISCONO SEMPRE GLI ULTIMI
Da due giorni sono rientrato dalla mia annuale missione in Guatemala. Nel mio viaggio di quest’anno sono stato testimone di una catastrofe “naturale” di ingenti proporzioni, della quale – come spesso capita – in Italia e in quasi tutto il resto del mondo si è parlato ben poco.
Un’eruzione del vulcano Pacaya, di proporzioni massicce, ha riempito di enormi mucchi di cenere le strade, i villaggi, l’aeroporto. E subito dopo, un uragano (denominato Agatha) di estrema violenza si è abbattuto sul Paese, scaricando una quantità di pioggia inusuale anche per la stagione delle piogge, peraltro iniziata da poco. Molti fiumi hanno esondato, con conseguenze drammatiche per la popolazione e per le cose, trecento ponti sono crollati, e fra questi una ventina di grande comunicazione. Duecento persone hanno perduto la vita, altre centinaia sono rimaste gravemente ferite, decine ancora mancano all’appello, centocinquantamila gli sfollati.
Danni incommensurabili hanno subito l’agricoltura e quasi tutte le attività produttive. Interi villaggi sono stati evacuati, alcuni sono stati praticamente spazzati via dalla furia degli elementi. Anche importanti aree cittadine sono state incredibilmente danneggiate, come nella capitale Ciudad de Guatemala, dove per esempio si è formata una voragine di decine di metri che ha praticamente inghiottito un isolato, o come nella Ciudad Vieja di Antigua Guatemala, dove molte abitazioni sono andate distrutte e dove si contano numerosi morti e scomparsi.
Ma soprattutto le aldeas, i villaggi più poveri, le comunità rurali, hanno sofferto e stanno soffrendo le conseguenze di quanto accaduto. E in qualche caso stanno cominciando solo adesso, dopo una settimana, a ricevere i primi aiuti. In molti posti non c’è letteralmente nulla da mangiare né acqua potabile di cui servirsi.
Nella zona del lago Atitlàn, dipartimento di Sololà, alcuni villaggi, come per esempio San Antonio Palopò, località nota per la bellezza dei manufatti tessili che vi si producono, sono stati quasi cancellati dalla carta geografica. Qualcuno ricorderà che queste località solo cinque anni fa erano state colpite dalla furia dell’uragano Stan, che aveva fatto mille morti e distrutto moltissime infrastrutture del Paese.
Come sempre i più poveri pagano il prezzo più alto delle catastrofi “naturali”, parola che – come noterete – continuo a scrivere fra virgolette, perché se è vero che sono gli elementi naturali a determinare queste disgrazie, è altrettanto vero che sono l’insipienza, la sciattoneria, la corruzione, l’inefficienza, il menefreghismo degli esseri umani e della gran parte dei ceti e dirigenziali a voler mantenere una situazione sociale ed ambientale di degrado e di squilibrio che non può far altro che moltiplicare per cento i danni del sommovimento della natura.
Guarda caso sono le zone più deforestate a franare in maniera disastrosa, guarda caso sono i villaggi più poveri, magari costruiti su vere e proprie discariche di rifiuti e dove l’esclusione sociale è massima, a rimanere sepolti sotto il fango; sono le strade fatiscenti delle campagne più sperdute a rimanere interrotte per settimane, guarda caso sono i più miseri a rimanere completamente senza diritto di accesso alle cure mediche.
Ma adesso occorre uno sforzo massimo e straordinario da parte di tutti.
Da parte di tutti quelli che ci conoscono e che in varie occasioni ci sono stati vicini.
Da parte di chi non si rassegna e non si da per vinto, nella convinzione che quello che accade in posti come il Guatemala sia un problema di tutti.
Da parte di chi pensa che le sofferenze dei poveri non siano meno importanti quando accadono in paesi lontani.
Pippo Tadolini, Presidente di “Amici di Rekko 7” (Onlus) di Ravenna,
5 giugno 2010
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