Quando uno “degli angeli custodi” apre la porta blindata, non immagini di ritrovarti in una stanza dai colori sgargianti e il sottofondo di musica jazz. Fuori si respira il grigiore teso del “Juzgado de mayor riesgo”, il tribunale di massima sicurezza del Guatemala. Dentro le rose color cipria svettano nel vaso poggiato sul tavolo. Dietro si nasconde una sagoma minuta.
Che si precipita incontro al visitatore con un sorriso largo e accogliente. È giovane e molto bella Jazmín Barrios: lunghi capelli neri ondulati, lineamenti delicati. Eccola la “giudice di ferro”, come l’ha ribattezzata la stampa internazionale. «Ma va. Sono solo una donna semplice e vicina alla gente». È anche molto altro, però. Coraggiosa, determinata, testarda, da quando è entrata in magistratura, nel 1996 – lo stesso anno degli accordi di pace –, Barrios non si è mai tirata indietro di fronte a un caso “difficile”. Nella sua aula, si susseguono responsabili dei peggiori massacri del conflitto – dagli assassini del vescovo Juan Gerardi all’ex dittatore Efraím Rios Montt –, boss del narcotraffico, mafiosi, criminali di “razza”. «Giudico tutti con rispetto, senza pregiudizi. È una regola di vita e di lavoro».
Facile a dirsi, più difficile a farsi…
Ci vuole disciplina. Parto dalla “presunzione di bontà”: ogni persona è buona fin quando non viene dimostrato il contrario. Non posso farci niente: credo nell’essere umano. E nel Dio che l’ha creato. Questo aiuta anche a non avere paura.
Davvero non ne ha?
No (ribatte senza nemmeno lasciar finire la frase, ndr).
Eppure è sotto scorta dal processo ai killer di monsignor Gerardi nel 2001…
Sì. Il giorno prima del dibattimento hanno lanciato due granate nel patio di casa. Ci sono ancora i segni sulle porte… E tre giorni prima, due persone avevano cercato di entrare nel mio appartamento. Provvidenzialmente passò un pattuglia della polizia che inseguiva uno scassinatore e gli aggressori dovettero fuggire. Da allora mi hanno assegnato la scorta. Mi muovo sempre accompagnata: al supermercato, al bar… Certo, a volte vorrei maggior privacy. Ma è lo scotto che devo pagare per poter servire la giustizia.
A maggio lei ha presieduto la Corte che condannato per genocidio l’ex dittatore Rios Montt. È torna in prima linea...
Stavolta, a differenza del processo Gerardi, chi voleva intimidirmi ha utilizzato la calunnia invece della forza bruta. C’è stata una campagna di diffamazione contro il tribunale. Ogni giorno, i giornali pubblicavano una valanga di accuse nei nostri confronti. Ci hanno definiti guerriglieri, terroristi.. Con me, poi, si sono accaniti in modo particolare perché mi ero già occupata di violazioni di diritti umani.
C’entra qualcosa il fatto di essere donna?
Probabilmente se fossi stata un uomo, non sarebbero scesi così nel personale. È inutile negarlo: questo è un Paese meraviglioso ma maschilista. Le donne devono lavorare il triplo per andare avanti.
Lei quante ore lavora?
Otto, dodici, dipende. Spesso i colleghi mi prendono in giro e dicono che dovrei portarmi il letto in ufficio.
Ne vale la pena? Penso, ad esempio, alla storica sentenza Rios Montt annullata dopo dieci giorni dalla Corte costituzionale per vizi procedurali.
Continuo a credere nella giustizia. E nel dovere di noi giudici di amministrarla con trasparenza, imparzialità, responsabilità. C’è gente là fuori, ferita e oltraggiata. Il compito dei magistrati è quello di ascoltarli e agire secondo la legge. Solo così possiamo ridare credibilità al sistema giudiziario.
Lucia Capuzzi (in Avvenire, 27 novembre 2013)